Ci ho provato a ramazzare tra i miei ricordi di adolescenza per trovare un aneddoto sull’importanza seminale del negozio di dischi nella mia formazione musicale.
Non l’ho trovato.
Ne ho un sacco sui librai, posso raccontarvi dei librai? No. Ok.
Nessun negoziante mentore mi ha introdotto alla scoperta di band che hanno rivoluzionato la mia formazione, nessun esercente dai gusti articolati ha messo su un cd che mi ha fatto appizzare le orecchie. Come è possibile?
Eppure è dal giorno in cui ho fatto il salto quantico dai Take That ai Nirvana che compro musica, sto in mezzo a gente che produce musica e compra musica. Gli aneddoti su vinili nelle loro copertine di plastica e bootleg introvabili non dovrebbero mancare. Invece: niente.
La realtà è che nella mia adolescenza i negozi di dischi si dividevano in due categorie: quelli coi greatest hits di Celine Dion, e quelli in cui il gestore ti teneva d’occhio perché non ti inguattassi i cd. Che poi, inguattarsi cosa, se esposte c’erano solo le custodie vuote? A ripensarci, mi viene il dubbio che agli occhi dei gestori del negozio fossimo non molto diversi da roditori con camicie di flanella che ti ingolfavano il negozio aggirandosi tra gli scaffali senza comprare NIENTE.
Anzi no, non è vero, qualcosa compravamo. Discussioni talmudiche che duravano settimane per decidere cosa acquistare. Perché da quel cd non dipendeva solo la bontà dell’acquisto di chi lo comperava, ma i destini di tutti noi che eravamo l’indotto di quel cd, che l’avremmo ascoltato riprodotto in cassettine di fattura domestica. E quindi eccoci lì, brufolosi e flanellati a bivaccare per ore nel negozio uscendo con UN unico cd a 19.900 lire in sei. Tanto comunque l’alternativa non c’era: o lì, o lì, qualunque fosse il trattamento del proprietario.
Quando sono uscita da questo stato di minorità l’internet era arrivato e io avevo cominciato a comprare i dischi. Ai concerti.
Ho continuato. Compro cd, compro vinili. Compro pure le spillette e le magliette, e le serigrafie in edizione limitata. Non c’è feticismo che non abbia coltivato – o bramato di soddisfare alla prima occasione. Ma compro ai live. Compro dai gruppi, dalle etichette, dai banchetti dove ti accalchi ancora felice per il concerto.
La cosa curiosa è che noi roditori con camicie di flanella anche in libreria ci aggiravano tra gli scaffali senza comprare NIENTE. Portavamo avanti discussioni talmudiche per decidere cosa acquistare anche davanti ai volumi Einaudi. Brufolosi e flanellati a bivaccare per ore nel negozio uscendo con UN unico libro a 19.900 lire in sei anche in libreria. Eppure i librai mi hanno parlato, consigliato libri, criticato autori e dato consigli. Se dovessi raccontare dell’importanza delle librerie indipendenti nella mia vita di lettore saprei cosa dire. Sui negozi di dischi no. Eppure sono quindici anni che compro dischi, tanti quanti gli anni da cui compro libri (prima me li comprava qualcun altro).
Non so che riflessioni dovrei tirare fuori da tutto questo. Forse due. Uno è che il try&buy l’ho cominciato a praticare molto prima dell’internet. E la seconda è che i topi saccenti in camicie di flanella sono i tuoi acquirenti futuri. Se li sopporti quando sono brufolosi e saccenti puoi dargli un imprinting, e magari tornano. Altrimenti finiranno per comprare quello che vendi tu, ma da qualcun altro e in un altro modo. Appena avranno un’alternativa.
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[è andata più o meno così: mi scrive il bu0n farabegoli e mi dice ‘su vitaminic stiamo facendo questa cosa qui, ti va di disegnare qualcosa per il record store day?’ io dico ‘hai voglia!’ e questo è il risultato.]
Leggo solo ora, in ritardo…
E’ buffo, x me è stato quasi l’opposto, evidentemente coi negozi di dischi mi è andata bene, o forse è solo che ho cominciato persino prima delle librerie, coi 45 giri a 4500 lire (ah! la lira!)e molto tempo dopo coi cd. e sono nato in una piccola città del profondo Sud! Ora che ci penso quand’ero piccolo c’erano 2 librerie (scarse) e almeno 6 negozi di dischi, che vorrà dire?
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