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Non muoverti, hai un mommoti sulla spalla

Mommoti

Nella tradizione sarda il mommotti (noto anche come bobbotti) rappresenta una figura immaginaria utilizzata per spaurire i bambini. Talvolta viene associato all’uomo nero […] e il suo compito è quello di portare via i bambini che non si comportano bene.

I miei mommoti hanno un errore di ortografia nel nome, perché la prima volta l’ho scritto a memoria, senza chiedere a Wikipedia. Poco male: l’errore da mostri di tutti li ha fatti mostri miei personali, ma ancora parenti dell’originale.
P: “Il singolare di mommoti qual è?” T: “Nel mio caso, possiamo fare che è mommoto”
(che poi secondo me è un falso problema, perché dove vedi un mommoto ce ne sono sempre altri, per cui il singolare non serve granché.)
Son mostri venuti su perché ho un aggeggio nuovo con cui si può disegnare, detto il mammozzone per le sue dimensioni al limite della portabilità (sì, marginalmente ci si telefona pure).

Il mammozzone è stato scelto nonostante la concorrenza più leggera e maneggevole perché poteva fare una cosa che gli altri non fanno: disegna. Cioè tu disegni, lui ti supporta. Ma scusa – dici tu – ma non ce l’avevi anche prima lo sketchbook e le penne da tenere in borsa per disegnare in giro? O guardandola dall’altra parte, non l’avevi già una macchina fotografica, un telefono dotato di fotocamera e una serie di strumenti per disegnare sulle foto dal pc? Sì. Però questo è un classico esempio del fatto che quando la tecnologia ti offre un modo per andare direttamente da A a C senza passare per la lettera intermedia, tu ci vai. Provi a farlo perché si può fare, perché il telefono ce l’hai sempre appresso, perché l’intervallo tra l’idea che ti ha fatto sorridere e il metterla giù è molto più breve.

Per non parlare del fatto che lo sketchbook di carta è un oggetto che catalizza l’attenzione, anche solo perché è desueto. Tu cominci a disegnare sullo sketchbook e la gente sente improvvisamente il desiderio di guardare cosa stai facendo. A me, quando mi occhieggiano da sopra la spalla, vien l’ansia da prestazione. E il punto dello sketchbook è che buona parte di quello che fai sono cose brutte, perché le cose brutte sono un passaggio necessario, anzi essenziale per fare non dico le cose belle, ma quelle appena decenti.* Invece quando spippoli su un telefono nessuno ti guarda, nemmeno se il telefono è largo come un tascabile Einaudi e munito di penna: è un telefono e come tale garantisce il diritto all’oblio.

Insomma, da quando è arrivato, se c’è un momento di buco tiro fuori la pennina e inizio a disegnare, il più delle volte su qualche foto sciocca che ho appena fatto. M’è preso di nuovo il gusto di disegnare per disegnare, disegno le case di fronte (male) i fumetti che leggo (male), il mio gatto (male).

I mommoti nuovi finiscono in genere su instagram sotto un grande ombrello di hashtag, li trovate lì, se vi fanno simpatia.

 

* Volevo dire un’altra cosa, su questo tema delle cose brutte. Prima di andare ai concerti del Primavera Sound, giovedì siamo andati al Museo Picasso. La bellezza di quel museo, per me, al di là delle opere, è in quello che racconta del modo in cui nascono certe idee, certi modi di raccontare il mondo per immagini: le false partenze, le involuzioni, le intuizioni abbandonate per prendere altre strade. Tra le cose esposte ci sono degli sketchbook di un periodo che Picasso ha passato in un paesino disegnando montagne, paesani, alberi. Ecco: in quei taccuini ci sono un sacco di disegni brutti. Brutti e disordinati. Ma non un bel disordine creativo e una poetica bruttezza, proprio un disordine brutto e sporco. E questa cosa mi ha colpito e un po’ sollevato, perché  a vedere gli sketchbook di tanti artisti, così belli e pieni di ispirazione m’era venuto il dubbio che i disegni brutti negli sketchbook ce li hanno solo quelli che non sono capaci.

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