Nella letterina di marzo – quando il lockdown era appena iniziato ed era molto più inverno di adesso – dicevo che io, quando ci sono le preoccupazioni grosse, faccio manutenzione, riordino, rammendo. In realtà le cose stanno in maniera un po’ diversa, che mi fa sembrare molto meno equilibrata e responsabile e mi fa molto meno onore: in realtà io PRIMA faccio esplodere le cose, tiro fuori TUTTO dai cassetti, raspolo reperti fossili, POI vivo (e faccio vivere chi mi circonda) nel disagio e nel fastidio per settimane, POI rimetto a posto con cura e attenzione.
Che è quello che ho fatto con questo post che ho scritto lo scorso inverno sul lavoro per Lingua: l’ho scritto tutto in maniera caotica a novembre, approfittando dell’unico giorno di sole che c’è stato per settimane per cercare di fare delle foto onorevole alla scatola piena di meraviglie – fra cui il piattino realizzato da Ilaria.I – con cui ha annunciato la sua nascita, e poi l’ho lasciato in sospeso così a lungo che nel mentre ha fatto a tempo a succedere la qualunque. Le cose che scrivevo a novembre le ho poi vissute, come tutti gli altri, in maniera profondissima negli ultimi mesi: il valore emotivo e materiale del cibo.
Non c’è niente di univoco nel cibo né in come lo interpretiamo. Levi Strauss diceva che “una cosa diventa buona da mangiare quando è anche buona da pensare”, mentre secondo Marvin Harris un cibo per diventare buono da pensare solo se prima è buono da mangiare: le ragioni economiche precedono quelle simbolico-culturali. (io in tutto questo, so che volete saperlo, sto dalla parte di Harris e ne approfitto per sottolineare un concetto che mi è molto caro – tirando fuori la sciarpa da ultrà e i bandieroni – ovvero LEVI STRAUSS HAI FATTO PIÙ DANNI DELLA GRANDINE.)
Pensate all’introvabilità del lievito o ai cibi che vi sono mancati in questi mesi. Il cibo è costume, rapporto umano, e un sacco, un sacco, un sacco di emotività. E siccome non c’è niente di univoco nel cibo né nel modo in cui ci rapportiamo ad esso, l’immagine di copertina per un podcast che non è un racconto unico ma una vicenda corale fatta delle storie di molte persone e di molti approcci differenti al cibo, non poteva essere altro che un pattern.
Ragionando su cosa avrebbe avuto senso fosse disegnato nel pattern, abbiamo deciso che anziché rappresentare didascalicamente i cibi di cui si parla nelle diverse puntate aveva più senso andare al cuore della questione, e parlare dei sentimenti che passavano attraverso questi cibi. E allora eccole lì la teiera e tazza trabordante del troppo amore, la bottiglia con due cannucce da idea platonica del primo appuntamento, la flebo con l’impepata di cozze, il cucchiaio grande e il cucchiaio piccolo, le medaglie del runner e ovviamente la lingua, che richiamasse un po’ l’immaginario rock and roll ma con un accenno di sorriso vagamente ironico, che per me è quello riassume la voce di narratrice di Mariachiara.
(Una cosa che ho amato molto, ascoltandolo, riguarda il fatto che il rapporto col cibo è inevitabilmente un rapporto col corpo, il controllo del corpo, lo sguardo sul corpo, le aspettative sul corpo, tutti aspetti che si incrociano necessariamente con una prospettiva femminista. Non ha niente a che fare col lavoro sulla copertina, per cui lo mettiamo qui, tra parentesi)
Lingua lo trovate su Storytel, sono sei puntate, e se siete ancora in smartworking è un accompagnamento ideale per le vostre giornate. L’unico problema è che vi farà venire fame.