La prendo alla lontana: praticamente dal 1981. Crescere in Sardegna – almeno tra anni Ottanta e anni Zero – ti lasciava con la sensazione di crescere in provincia moltiplicato per un mare di mezzo. Sembrava che le cose importanti, rilevanti, interessanti, stessero sempre succedendo altrove. C’erano le cose che erano importanti e interessanti in Sardegna, ma potranno mai essere innovative e rilevanti come quello che succedeva altrove? Saranno importanti qui, ma mica là fuori, quell’eterno Altrove in cui stanno succedendo le cose degne di nota, mica da noi, periferia dell’impero del Mediterraneo.
Cresci dando per scontate le cose con cui hai familiarità, di cui non sei in grado di valutare il valore o l’entità fin quando non te ne allontani o non vieni in contatto con esperienze diverse dalla tua. Allontanarsi e tornare è uno di quegli esercizi che permette di realizzare due cose: da una parte il livello a cui hai accettato inconsciamente e in maniera acritica un pensiero coloniale fatto di centri e periferie, di posti che producono idee e posti da cui si estraggono risorse e persone, di società calde e società fredde (sto guardando te Levi Strauss, mannaggia a te) e di tutta la retorica sulle isole aspre e selvagge ma de core.
Dall’altra parte prendi atto che le cose che facevano parte del tuo panorama familiare erano – sono, perché è un verbo che va declinato al presente – in effetti esperienze artistiche e culturali di innovazione, in un dialogo costante con quello che succede nel resto del mondo, con una enorme consapevolezza del valore dell’arte nelle comunità, del valore politico di una pratica artistica che parla coi linguaggi e i materiali e i simboli del posto da cui si viene. Ti rendi conto che due cose possono essere vere contemporaneamente: che Maria Lai potrà anche avere la faccia di metà delle tue zie ed essere nata a mezz’ora di macchina dal paese di tua madre, potrà pure esserci una sua opera a due strade di distanza dalla tua scuola elementare (inutile che andate a cercarla, ci hanno piastrellato sopra), ma è stata contemporaneamente una delle artiste italiane più originali del Novecento.
Che ci sarà pure una scultura di Nivola dove andavi ad ammazzare il tempo durante il liceo, ma ce ne sono altrettante se non di più a New York. Che le opere di Sciola saranno anche una presenza familiare nel panorama della Sardegna, ma che di scultori che hanno fatto cantare le pietre non so quanti altri ce ne siano.
Tutte cose che ho pensato tutte assieme nello stesso momento quando Carlotta Rindone di Albero delle Matite mi ha chiamato per propormi di illustrare un testo di Daniela Palumbo che parlava dell’opera e della vita di Pinuccio Sciola.
Il libro, che si è chiamato Pinuccio nel mio cuore e nelle mie cartelle di file per un numero imprecisato di mesi, esce oggi, si intitola Che Cosa Senti?ed è un racconto che parla dell’arte di Sciola, del canto delle pietre e del Giardino delle Pietre Sonore. Spero davvero con le mie illustrazioni di essere riuscita a rendere giustizia alle sculture di Sciola, alla voce di Daniela Palumbo, e non ultimo alla voce delle pietre.
Questo è l’aspetto su cui ho riflettuto più a lungo: come trasportare dal linguaggio del suono a quello delle immagini un momento che vi auguro vi capiti almeno una volta nella vita, perché vedere una pietra comportarsi in un modo non da pietra – sculture suonate che si muovo come anemoni, pietre basaltiche che suonano bigger on the inside come un Tardis, come se dentro la scultura ci fosse molto più spazio di quello che si vede da fuori – è stata una delle esperienze che mi porterò dentro più a lungo di questo libro. (Complice anche la visita al giardino con la guida di Maria Sciola, che mi ha aiutato a capire e trovare il cuore del libro.)
Buon viaggio, piccolo libro bigger on the inside, abbiamo appena cominciato.